Con le persone che vedo in studio, ma in realtà anche nella vita fuori, mi capita molto spesso di venire a contatto con i vissuti di colpa.
Non sto parlando di chi ha trasgredito alle regole, di chi ha dato uno schiaffo, di chi ha fatto qualche indefinibile atto impuro.
Mi imbatto spesso nei sentimenti di chi non ha commesso alcuna colpa.
Sentimenti abbracciati stretti stretti con il sentirsi inadeguati, inferiori, indegni, quasi falliti.
Gli innamorati del senso di colpa sono quelle persone convinte di creare sofferenza nelle persone care, non per il male che fanno, ma per il solo fatto di essere come sono.
Troppo distratti.
O troppo pignoli.
Troppo socievoli.
O troppo asociali.
E’ un fenomeno curioso sentirsi in colpa per una azione che non c’è.
Sentirsi in colpa solo per essere chi si è.
Potrebbe essere una errata percezione quella che la colpa investa le donne più degli uomini, o forse è una percezione autobiografica.
D’altra parte, disse James Hillman, “Tutto quello che un individuo scrive è autobiografico, soprattutto in psicologia.”
Ma più che le statistiche mi piacerebbe riflettere sul come uscirne. Se uscirne si può.
La riflessione è nata da una frase letta casualmente mentre decidevo se tenere o buttare dei vecchi libri.
“E’ meglio essere un peccatore in un mondo guidato da Dio che vivere in un mondo guidato dal Diavolo” cit. Fairbain (per chi non lo sapesse, psicoanalista morto nel ‘64, quindi il libro era proprio vecchio).
Non so in che contesto lo abbia detto e se sarebbe stato d’accordo con la mia interpretazione, in ogni caso non può protestare.
Ma tornando alla colpa di essere sé stessi, grazie a questa citazione mi è venuta alla mente la colpa di Eva.
Ovvero quella di essere una sciagurata invece che la prediletta del Signore.
Poteva essere la figlia preferita, che tanto era l’unica, invece ha tradito le aspettative.
E ha accettato di essere solo una donna. Non la migliore. Non più l’unica. Assolutamente non quella citata come esempio. Quella che dovrà soffrire e patire per avere la vita che ha scelto.
Quindi credo sia così che se ne esce, accettando la ferita narcisistica di non essere il prediletto/la prediletta di nessuno.
Accettare di perdere quell’ideale di sé stessi, buoni, bravi, disponibili, altruisti.
Prendersi la responsabilità della propria imperfezione, senza più scaricare sugli altri l’onere di essere dei persecutori.
Non è un compito facile.
Eva lo sa.
Eva lo sa, certo.
Ma questo non impedisce all’Olimpo degli Dei, maschi, di continuare ad escluderla dal potere.
Non potendo ucciderli, uccide sè stessa.
Cara Margherita, non credo ci sia solo l’opzione uccidere o uccidersi.
Anzi, escluderei l’opzione che lascia solo cadaveri, che tra l’altro alimentano il vissuto di colpa.
Il mio articolo parla proprio di come possiamo da sole toglierci quei vincoli che ci limitano, acquisire la sicurezza per infilare “il piede nella porta” dell’Olimpo